di Silio Rossi – Non aveva tanti amici nella politica, nonostante in Irpinia, nei momenti in cui serviva una mano per il suo Avellino, c’era la presenza di due potenti leader democristiani: Nicola Mancino e Ciriaco De Mita. E non si fidava neppure di chi comandava nel calcio.
Don Antonio Sibilia non sopportava Antonio Matarrese, presidente prima della Lega calcio e successivamente inquilino della migliore stanza in via Gregorio Allegri a Roma. “Con i pugliesi non sono mai andato d’accordo“, diceva serio, serio .
Però, anni prima che “il pugliese” si insediasse nella Capitale, accettò l’invito di Federico Sordillo suo conterraneo e suo grande consigliere in materie giuridiche soprattutto in tema di calcio, a salire a Roma per ritirare la medaglia d’oro per la conquista del titolo di Campione d’Italia della formazione Primavera dell’Avellino. “Mi ha sempre dato una mano gli sono grato” raccontava tanto per far sapere di non essersi mai affidato ad altri.
Insomma la vita nel calcio, il “commendatore” l’ha vissuta prevalentemente nella sua terra. Dall’edilizia del dopo guerra, Sibilia capì che anche il pallone avrebbe potuto essere un motore importante per svegliare gli avellinesi.
Così al grido: “I soldi non partoriscono, devono camminare“, entrò trionfalmente nell’Avellino calcio, costruendo di anno in anno palazzi e ville, ma anche formazioni di ottimo livello. Ingaggiava giovani promesse poi le rivendeva ai club più importanti come il Milan, l’Inter, la Juventus, la Roma. Parallelamente cresceva il feeling con gli irpini che ogni domenica, al Partenio o addirittura in trasferta, seguivano la squadra con quella passione che soltanto i campani sanno esternare.
Inoltre veniva “santificata” la passerella della domenica. Ricordo di un Avellino-Roma in cui i padroni di casa passarono in vantaggio. I posti riservati alla stampa erano una fila dietro la Tribuna d’onore dove erano ospitati i due parlamentari democristiani. Al momento del vantaggio dell’Avellino arrivò il mio: “No, non è possibile” che fece voltare di scatto De Mita verso di me. Mi suggerì di restare sereno: “Stia tranquillo, potete pareggiare”. Inutile provare a spiegargli che la mia preoccupazione veniva dallo stadio Olimpico di Roma, dove la Lazio aveva preso un gol impossibile contro una formazione di bassa classifica, proprio in quei minuti.
Sibilia ha sempre fatto tutto da solo, anche nel calcio. “I procuratori – si vantava – non mi piacciono e non ne tengo“.
Aveva alcuni collaboratori, ma li chiamava in causa soltanto in rare occasioni, il più delle volte per farsi “riferire” vizi, virtù e “scappatelle” di questo o quell’atleta.
Ricordo che un anno era sul punto di tesserare Domenico Marocchino, ottimo tornante, che giocherà in Nazionale e finirà alla Juventus, ma qualcuno raccontò a Sibilia che al ragazzo piaceva rincasare tardi. “E’ ‘nu buono giocatore, ma pure si me piace, nun mo pozz piglià”, così liquidò la pratica. Nei periodi del calciomercato, a Milano, Sibilia si accomodava sempre al tavolo più importante e a volte faceva fare la fila davanti al box della sua società ai suoi colleghi e ai direttori sportivi che bussavano per chiedergli il cartellino dei suoi più bravi.
A ogni inizio di stagione dettava le regole. Guai a chi sgarrava. Nella migliore delle ipotesi piovevano delle multe. Basterebbe chiedere a Stefano Tacconi quanti soldi gli sono stati “sfilati” dagli stipendi. O a Beniamino Vignola, bravo e biondo regista, poi ceduto come il portiere alla Juventus, a cui rimproverava “comportamenti non certo da professionista“. Insomma si impegnava poco. E quella volta che Vignola si ribellò, il presidente fece volare uno scapaccione, bollando il ragazzo, a cui si diceva volesse un gran bene: “E’ ‘nu guaglione disobbediente“.
Don Antonio aveva un debole per Criscimanni, Beruatto , De Napoli e, ovviamente per il quale ad ogni gol se ne andava attorno alla bandierina del calcio d’angolo per dare vita a quello strano balletto che è passato alla storia. Ma anche questi quattro atleti erano obbligati a rispettare il rigido regolamento interno. Né aveva occhi di riguardo per gli allenatori, dai quali, oltre alla preparazione della squadra e ai rapporti con la società, pretendeva l’identica disciplina imposta alla squadra.
A don Antonio, per molti motivi, serviva che l’Avellino, anche se a metà classifica, si fermasse il più a lungo possibile in serie A. Lo faceva per l’immagine e anche per la sua grossa operazione di marketing. Così, in un paio di stagioni, le più delicate, sulla panchina si sono alternati ben cinque allenatori: era partito con Vinicio poi, esonerato “o lione” si era affidato a Claudio Tobia, che licenziò per prendere Fernando Veneranda. Poi toccò a Ottavio Bianchi e a Valentin Angelillo. In precedenza aveva avuto Rino Marchesi, ottimo tecnico, dal carattere riflessivo grazie, dissero i beninformati, al suo amore per la musica classica.
Con lui Sibilia aveva avuto un ottimo rapporto anche se a volte, a causa della sofferenza che don Antonio pativa nei novanta minuti, aveva qualcosa da dire sulle difficoltà a chiudere le partite e sulle spasmodiche prima di arrivare al gol della liberazione. “Marchesi è ‘nu mierico, ca nun te fà mai murì, ma ca nun te fa mai stà bbuono veramente“, diceva.
“O commendatore” se ne è andato nel 2014, a fine ottobre. Per pochi giorni non ha potuto festeggiare il compleanno con i soliti fuochi d’artificio. Lo faceva ogni volta il 4 novembre. Scherzando lasciava la parola ai bengala e ai botti: “Me serve pé fà vedé che ancora so’ vivo”.
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