di Silio Rossi – La 26esima ricorrenza della tragica morte di Luciano Re Cecconi non può non farci rivivere, soprattutto, quella triste sera alla Collina Fleming, ma ci invita anche a portare indietro il nastro che, fortunatamente, ci sollecita ricordi migliori, giornate passate alla “viva noi”. Momenti indelebili, in cui l’amicizia, già quella di una volta, ti aiutava a tirare avanti e a dimenticare quei problemi che ciascuno di noi aveva, e che era portato a rimandare di qualche ora la scadenza.
Insomma, grazie anche alla mia età, ormai conclamata e accompagnata da qualche acciacco, posso tranquillamente sostenere che “allora si viveva meglio”, che l’amicizia oltre che vera era sacra, perché i sentimenti erano forti e intoccabili e perché così ci avevano insegnato a scuola o nelle viuzze del quartiere, dove solitamente si finiva giocando a “nascondino” o con la classica partitella a calcio, cinque contro cinque.
Per Gigi Martini e Luciano Re Cecconi è stato diverso, ma nel racconto del “comandante” traspare una riservatezza esagerata nell’offrire “confidenza” al compagno di Lazio, arrivato da pochi giorni nella Capitale e destinato a essergli collega nella squadra. E, addirittura, compagno di quel centrocampo che Tommaso Maestrelli aveva voluto fosse così ben sistemato sulle fasce laterali da dove sarebbe partita la “bocca di fuoco” con Giorgio Chinaglia.
Martini ripercorre quei primi momenti: “Eravamo nella Compagnia atleti della Cecchignola. Eravamo in tanti, molti di noi già si conoscevano, altri stringendosi la mano, lo facevano in maniera affettuosa. Io e lui ci guardavamo. Poi fu Cecco con un “Ciao, pirla!!” a rompere il ghiaccio e a dare un senso a quel nostro incontro. Io avevo giocato nel Livorno, lui a Foggia. Mi sfuggiva il particolare se fossimo stati avversari nel campionato di B“.
Sembrerà strano ma quel “Ciao, pirla!” diede inizio a un grande rapporto umano e professionale. La formazione della Nazionale Militare che, in quei giorni, era guidata da Romolo Alzani, laziale di grande spessore, fu di grande aiuto perché in campo i due dominavano nella fascia centrale, giocando proprio come Maestrelli, loro tecnico alla Lazio, aveva raccomandato e suggerito all’amico Alzani.
Il resto è avvenuto dopo. Martini e Re Cecconi sono diventati inseparabili. Così le loro famiglie. Al mare, in vacanza, nelle uscite romane e nel frequentare gli stessi ristoranti e vestirsi dagli stessi e gettonati maestri di moda. Insomma vite parallele. Giornate di grandi emozioni che si chiudevano con la telefonatina serale in cui si parlava di calcio e delle partite.
Purtroppo il rapporto fu interrotto bruscamente dalla tragedia sulla quale non è mai stata mai data una giustificazione, e Re Cecconi ci rimise la vita. Un colpo di pistola, quell’avvertimento a Pietro Ghedin: “Tu non te ne andare” e la folle corsa verso l’ospedale, prima che la notizia si spargesse e che il traffico impazzisse. Perché si trattava di Luciano, uno dei migliori atleti di quella Lazio, uno dei ragazzi più affettuosi e semplici che Tommaso avesse gestito.
Al San Giacomo, in centro, cominciò una processione di compagni di squadra e curiosi per chiedere notizie del “biondo” di Nerviano, Tra i primi arrivò Martini, intelligentemente fatto passare da un’entrata di servizio, e arrivammo noi giornalisti. Noi per primi vista la vicinanza della sede de Il Tempo con l’ospedale. Soltanto per ascoltare il dottor Ziaco, medico della Lazio, ma dipendente di quella struttura, che confermava la morte del giocatore. E i commenti di chi aveva saputo e s’era spostato a Corso Umberto per commuoversi e urlare: “Hanno ammazzato Re Cecconi”.
Speciale il mio rapporto con Cecco. Roma è talmente grande che ti spinge ad avere spazi ridotti e frequentazioni non troppo allargate. Ad esempio noi che seguivano i biancazzurri ogni giorno, a forza di chiamarli, incrociarli, intervistarli, avevamo creato un rapporto cordiale, cameratesco, e soltanto nelle grandi occasioni: cene ufficiali, conferenze stampa generali, interviste nel dopo partita, era permesso “coltivare” le simpatie che nascevano vedendoli allenarsi a Tor di Quinto. Una manna soprattutto per chi aveva la fortuna di partire da “inviato” nel lungo periodo della preparazione in montagna e al seguito a seguire le partitelle di allenamento che, solitamente, venivano disputate in paesi amici dei presidenti, o di compagni di gioco degli allenatori.
A me Pievepelago, la cittadina dell’Appennino tosco-emiliano, zona in cui era nato Umberto Lenzini, m’è toccata tante volte. Si lavorava, ci si divertiva ed era giusto che a sentire un po’ di fresco, fosse l’intera famiglia, E io, puntualmente, la portavo a “vedere la Lazio”. Le mogli chiacchieravano, o restavano in albergo, i ragazzi li dovevi far scendere al campo, “altrimenti che siamo venuti a fare?”, dicevano.
Allora io e Fiorella avevamo soltanto Gabriele e proprio lui allacciò un bellissimo rapporto con Luciano Re Cecconi. Si cercavano, giocavano al biliardino insieme contro un’altra coppia e al campo capitava che, il più delle volte, fossero proprio i ragazzi ad andare a raccogliere il pallone che finiva fuori dal campo o in mezzo alla fitta boscaglia. Re Cecconi e Gabriele erano diventati amici per la pelle e non mi meravigliò che una mattina, comprando i giornali, mi accorsi che mio figlio era finito nella prima pagina del Corriere dello Sport, fotografato mentre riceveva dal centrocampista un bicchiere d’acqua per dissetarsi. Insomma Gabriele aveva “una cotta” per Cecco e quando, portandolo all’Olimpico a vedere, credo un Lazio-Bologna, Re Cecconi si fece male e Maestrelli fu costretto a sostituirlo, mio figlio mi bussò alla spalla e mi disse: “Adesso ce ne possiamo anche andare”.
Morale della favola: la simpatia e la stima qualche anno fa si “catturavano” anche grazie a questi piccoli gesti, voluti e autorizzati dalle società. Non come adesso che è diventato proibitivo avvicinare gli atleti, telefonare loro a casa, frequentarli nei momenti di libertà in giro per Roma. L’ho detto prima: io sono vecchio, ma mi sembra d’aver fatto un altro mestiere. E meno male che è stato così.
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