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L’editoriale di S. Rossi: “Di Bartolomei, 30 anni di solitudine”

di Silio Rossi – Sono passati trent’anni. Ho saputo del suicidio di Agostino Di Bartolomei a Milano, appena sbarcato a Linate per seguire il ritiro della nuova Nazionale di Arrigo Sacchi. Il ct aveva fissato l’appuntamento per i suoi azzurri, e quindi anche per noi addetti ai lavori, a Milanello a mezzogiorno di quel 30 maggio del 1994. Per esserci bisognava prendere il primo aereo da Roma e trasferirsi nell’altra parte del capoluogo lombardo. Insieme con altri colleghi ero salito da qualche minuto su un taxi, non immaginavo che dal telefonino che aveva preso a squillare, arrivasse la notizia drammatica.

Di Bartolomei aveva deciso di togliersi la vita con un colpo di pistola a San Marco di Castellabate nel Salernitano, dove con sua moglie Marisa e il figlio Luca, aveva stabilito da qualche tempo la sua residenza. Pensavo a uno scherzo, una voce infondata, non credevo possibile che un ragazzo di quasi quarant’anni, protagonista di una carriera sportiva di grande successo, avesse deciso di farla finita. Chi lo conosceva, infatti, non aveva dubbi ad ammettere che per quanto “silenzioso e musone” Ago fosse un ragazzo tranquillo, per bene, e come su questo suo stare in “grazia di Dio”, sapesse sprigionare anche un’insospettabile felicità.

Come era capitato con tanti ragazzi delle giovanili della Roma, l’avevo seguito passo passo, perché quel suo moderno modo di giocare non poteva non essere ignorato e poi perché, oltre alla sua classe aveva il vantaggio di calciare quelle autentiche bombe su punizione che facevano tremare le porte e i portieri avversari.
L’avevo sentito una settimana prima. Gli avevo chiesto se aveva piacere a venire a cena con Franco Tancredi, Gaetano Colucci, Nino Celli, suo amico personale anche se non del mondo calcistico, e il sottoscritto. Insomma quel gruppetto di amici con i quali si accompagnava per andare a mangiare una pizza, visto che abitavamo un po’ tutti in zona Eur. Mi rispose che sarebbe venuto volentieri, ma che quel giorno non poteva, perché la sua presenza a Roma era vincolata a un “turno di servizio” a suo padre Franco, ricoverato da qualche giorno in clinica e quindi bisognoso della sua assistenza.

La prossima volta ti faccio sapere se sto a Roma, così organizzate“, mi disse. Purtroppo non c’è mai stata un’altra volta. E ricordandolo, ancora adesso che sono passati trent’anni, mi viene da chiedermi da quanto tempo Ago covasse questo misterioso e insano gesto.
Dietro quella struttura fisica robusta nelle ossa e nei muscoli, Di Bartolomei nascondeva forse le sue fragilità. Quelle di un animo delicato e di un cuore grandissimo sempre disponibile a dare “una mano” a quanti, compagni o no, si rivolgevano a lui per chiedere un favore personale, addirittura un’occupazione. Ricordo che proprio lui fu uno dei primi ad usare il borsello, la prima cosa che prendeva scendendo dalla macchina, per infilarsi negli spogliatoi. Dentro conservava i numeri giusti: bastava chiedere e lui immediatamente entrava in azione con successo.
Questa sua vocazione all’altruismo veniva sicuramente da un’educazione profonda della famiglia, da una cultura niente affatto superficiale e, ne sono certo, anche dall’aver frequentato la parrocchia e l’oratorio del San Filippo Neri alla Garbatella. Era lì su un campo sterrato, la domenica mattina, dopo la messa, che aveva iniziato già a calciare così forte per scaricare la sua rabbia appassionata e la sua voglia di vivere nel calcio e per il calcio. Ecco perché era scritto che giocasse a pallone da protagonista e che finisse alla Roma. Aiutato dal tifo che in casa si faceva per quei colori e anche grazie a Gaetano Anzalone che aveva particolarmente a cuore i settori delle squadre più giovani.
Anzalone aveva avuto la grande idea di allestire un vero e proprio gruppo dei più meritevoli e dei più dotati, creando il San Tarcisio: scuola, studio, allenamenti e serietà. Basterebbe ricordare soltanto qualche nome: Rocca, Peccenini, Bruno Conti, Quintini, Sandreani, Sella. Questi i “piccoli” che Giorgio Bravi, ma anche altri allenatori, prima con gli allievi e poi con la formazione “primavera” hanno di anno in anno guidato dalla panchina, collezionando successi e consegnando i più dotati alla prima squadra.

Agostino calcisticamente era cresciuto per essere campione. Non era un calciatore qualunque: era nato per fare da guida agli altri, una sorta di fratello maggiore, sempre disponibile a soccorrere chi si trovava in difficoltà. E non soltanto in partita.

Una volta smessa l’attività agonistica, Ago era destinato a fare l’allenatore, anzi forse meglio il dirigente. Si era preparato per questo, aveva studiato sistemi e strategie. E ci ha provato proprio a San Marco di Castellabate, dove aveva aperto una scuola calcio. Una struttura classica, senza fronzoli e senza tante pretese, ma che doveva essere la chiave di volta per tenere impegnati i ragazzi di quella zona, allontanarli da altre distrazioni e magari premiarli procurando ai più promettenti un provino per l’Avellino, la Salernitana o il Napoli. Nel frattempo l’ex capitano giallorosso aveva iniziato a elaborare progetti tecnici, a suggerire nuovi sistemi per il calcio, a pubblicare manuali su come far giocare i più giovani e come farli crescere sereni e sani.
Di Bartolomei portò in giro il suo lavoro mettendolo a disposizione di altri club. Tante le promesse, forse troppe, soltanto quelle. “È tutto interessante bisogna parlarne in società. Ti faremo sapere“, gli dicevano. Giorno dopo giorno, Agostino deve aver capito che sarebbe stata dura, che quelle risposte interlocutorie non erano altro che un modo elegante per prendere tempo o addirittura per toglierselo di torno, deve aver pensato. Capì che non ci sarebbe stato più spazio e improvvisamente si sentì solo. Fu travolto dalla fragilità, crollarono le speranze di un futuro dedicato ad insegnare il calcio a tanti ragazzini, un impegno affrontato con amore e serietà con la prospettiva di creare qualcosa di grande e importante. Forse per questo quella terrazza sul mare del Cilento diventò il suo ultimo maledetto palcoscenico.

Di Ago qui nella Capitale resta un’unica traccia: un campo a lui intitolato all’interno del Centro Sportivo di Trigoria e una viuzza dentro un parco sull’Appia Nuova. Decisamente troppo poco.

Silio Rossi

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