di Silio Rossi – La sua era una saggezza contadina. Nereo Rocco era sanguigno, istintivo, pronto a colpire con una battuta e riderci sopra. Centrava sempre il bersaglio. Degli uomini che incontrava indagava soprattutto i sapori e i loro odori, soffermandosi di preferenza sui loro aspetti più autentici e vitali. Gli spogliatoi degli stadi, i ristoranti, le cantine, i saloni degli alberghi erano le sue tane abituali. I campioni in declino appartenevano di diritto al suo parco giocatori preferito. E lui sapeva riportarli tutti alla loro migliore natura. Ha conosciuto il calcio da “pane e pezzetti” ma ha saputo conquistare medaglie e coppe in giro per il mondo, quando qualcuno ha intuito che “el paròn” fosse capace di orientare i suoi verso un calcio vincente.
Di condizione agiata, grazie all’azienda per il commercio di carni di sua proprietà, Nereo fece in fretta a staccarsi dal lavoro familiare per legarsi al pallone, osservando le partite della Unione Sportiva Triestina che giocava in un campo vicino a casa sua. Capire che poteva farcela non gli fu difficile. Anzi più si divertiva a vedere partite, più gli nasceva dentro la voglia di buttarsi dentro. Fortificato dal modo di pensare il calcio nella sua maniera, secondo i suoi schemi, almeno inizialmente, salvo modificarli quando, anno dopo anno gli fu affidato il Milan degli anni d’oro, quello che neppure lui aveva immaginato potesse toccargli in sorte. Due scudetti, tre Coppa Italia, due Coppe dei campioni, due Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale, un Seminatore d’oro e per finire, alla memoria, nel 2012, l’iscrizione del suo nome nella Hall of Fame del calcio.
Alla faccia delle sue prime intenzioni da allenatore: “Una squadra perfetta deve avere un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un mona che segna e sette asini che corrono“. Era questa la filosofia spicciola del paròn.
Le sue esperienze nel Padova, per la verità, proprio questo volevano far capire. Il calcio che si giocava all’Appiani non era da “palla o piede”, ma molto vi somigliava. Quella difesa granitica: Pin, Blason, Scagnellato, Azzini, Pison, toccava la palla e respingeva gli attaccanti avversari anche se, strada facendo, in quegli anni di prestiti e cessioni, a disposizione ci sono stati anche Hamrin, Brighenti, Cesare Maldini, Amos Mariani, Nicolè, gente che sapeva proporsi piacevolmente nelle azioni offensive. Più volte quella formazione ha chiuso al terzo posto della classifica, o qualche gradino più sotto, regalando allo stadio padovano l’appellativo di “fossa dei leoni”, perché prodigiosamente inespugnabile.
E la città di Padova non faceva altro che seguire la sua squadra, i suoi atleti, i buoni risultati del campionato su cui, così ragionava la gente, allungava la mano anche Sant’Antonio. Quando si giocava in casa, il programma non variava mai: prima della in gruppo si andava a messa nella Basilica, poi pranzo a Piazza delle Erbe e, dopo le ultime istruzioni del tecnico, tutti a piedi fino ai cancelli dello stadio.
Del Rocco che ha vinto tutto col Milan parlano i trofei e gli annali. Per ventotto anni dal campionato 77-78 il tecnico triestino ha detenuto il record di presenze come allenatore in Serie A con 787 partite, superato soltanto da Carlo Mazzone arrivato a 795. Si dirà: ma una volta al Milan “el paròn” ha potuto divertirsi nel raggiungere traguardi ambiziosi. In effetti aveva frequentato il mondo del calcio più ricco in quegli anni; frequentato Gipo Viani, un grande maestro; si era legato a Gianni Brera che in quel periodo era “il giornalismo”. Aveva avuto Gianni Rivera, il numero 10 per antonomasia, tanto che si arrabbiò non poco quando il suo collega Marchioro gli fece indossare la maglia numero 7: “Un insulto al calcio” fu il commento lapidario di Rocco.
Di lui mi piace riportare un paio di “sentenze” da considerare autentiche “parole di veritas”.
“Tatticamente, me racomando, scrive ben: xe la storia de tuti i allenadori. Dal lunedì al venerdì i xe olandesi, al sabato i ghe pensa. La domenica, giuro sulla mia beltà, tuti indrio e si salvi chi può“.
E ancora: “El calcio xe semplice: uno in porta e dieci fora. Solo noi femo el catenaccio. I altri fa calcio prudente. Mi te digo cossa far, ma dopo in campo te ghe va ti”.
Anche se resta memorabile la fulminea risposta a un giornalista torinese prima di uno Juventus – Padova: “Che vinca il migliore? Sperem de no!”
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