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Ieri l’addio a Gigi Riva, il Rombo di Tuono mite e coraggioso

L'amore per la Sardegna: “Ero senza famiglia, ne ho trovato tante"

di Roberto Vena – C’erano il sole e il mare appena increspato ieri a Cagliari a salutare Gigi Riva. Un addio di popolo in una giornata mite come l’uomo che alla classe, al coraggio, alla indomita determinazione e alla potenza fragorosa del Rombo di Tuono univa un carattere timido, introverso, solitario, preromantico. Un addio di popolo, si diceva: dell’intero popolo del calcio affratellato dalle gesta pedatorie dell’Ala Sinistra per eccellenza del calcio italiano e mondiale. E’ stato però soprattutto l’addio del popolo sardo, trafitto dalla notizia della scomparsa di Giggirriva, improvvisa e inaspettata, fulminea, inesorabile come una sua conclusione che si insacca all’incrocio. Una Nazione in lacrime che ieri a Cagliari ha reso omaggio all’Eroe occupando ogni minimo spazio dentro, davanti e intorno alla Basilica di Nostra Signora di Bonaria, capolinea terreno del calciatore. E che prima ancora si era messa in fila per ore pur di salutarlo nella camera ardente allestita allo stadio Unipol Domus.

L’amore per la Sardegna

Per tutti, e in particolare per chi è nato e vive in Sardegna, Gigi Riva non è stato solo un fuoriclasse, il più grande attaccante italiano di tutti i tempi. E’ stato molto di più: ha rappresentato la proiezione della fierezza sarda sui campi di calcio e, altrove, della riaffermazione di un’identità etnica e sociale millenaria ma da sempre conculcata e, troppo spesso, volgarmente derisa. Riva, varesino di Leggiuno, nato in riva al lago Maggiore, quello che “se non avessi fatto il calciatore, avrei voluto fare il contrabbandiere”, ha incarnato l’isolanità come nessuno avrebbe mai potuto immaginare diventando personaggio leggendario di un epos vissuto e condiviso con toni pacati da tutti i sardi senza distinzione di età, genere, censo, professione.

Giggirriva, bomber del Cagliari dei miracoli e figura mitologica di bellezza apollinea, il suo calcio e la sua vita sono stati la perfetta miscela tra la potenza e il coraggio di Ercole, l’astuzia beffarda di Ulisse, la ferocia – calcisticamente parlando – di Achille e l’umanità dolente di Ettore.  Al suo arrivo in Sardegna dal Legnano, a 19 anni, temeva lo spaesamento in una terra ancora temuta e misteriosa per l’Italia del 1963, lui che aveva già conosciuto sin dall’infanzia il dolore e la solitudine dell’orfano, l’offesa dell’indigenza, la disumanità dei collegi in cui ha girovagato.

Dirà anni dopo chiacchierando con Gianni Mura “la Sardegna in cui sbarcai io non era quella della Costa Smeralda, dell’Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione”. Non è un caso che scoprirà la sua affinità con l’altro grande sardo di adozione: Fabrizio De Andrè, che conobbe e frequentò diventandone amico nella massima riservatezza.

1969-70: la ciurma di pirati all’assalto dello Scudetto

Quella Sardegna ancestrale e orgogliosa si è subito innamorata del ragazzino di pochissime parole e sguardi eloquenti, leale e un po’ testardo – doti senza prezzo in quell’angolo di terra – che ha ricambiato l’amore della gente senza esitazioni, appagato finalmente da tanto sentimento, profondo e mai soffocante. Allo stadio si riversavano sardi di ogni provenienza. Persino Gratzianeddu Mesina, il bandito barbaricino confessò anni più tardi di essersi recato da latitante allo stadio per tifare Riva travestendosi per sfuggire alla cattura.

Di quel suo Nuovo Mondo Gigi Riva ha voluto essere il portabandiera, dichiarando fedeltà perenne al vessillo rossoblù dei Quattro Mori e dimostrandosi ostinatamente impermeabile a ogni richiamo di glorie e conti in banca più sostanziosi. Issata la bandiera sull’albero più alto dello sciabecco, col timoniere Scopigno ha preso il maestrale per condurre da ufficiale cannoniere la ciurma piratesca del Cagliari calcio a battagliare in mare aperto e vincere contro le storiche potenze calcistiche del Nord.  

L’Isola è stata perciò suo padre e sua madre, la sua grande famiglia diffusa in ogni angolo: “Ero senza famiglia, ne ho trovato tante, quella del pescatore, che mi invitava a cena, dell’edicolante, del macellaio, del pastore”.

Più ancora del calciatore i sardi hanno amato l’uomo e la sua purezza morale. Per convincerlo a lasciare la Sardegna Milan, Inter e soprattutto la Juventus fecero a lui e al presidente Arrica proposte economicamente indecenti per i tempi. L’ultimo disperato tentativo di strapparlo al Poetto fu di Gianni Agnelli nel 1973: due miliardi più sei giocatori, tra i quali Bettega, Gentile e  il sardo Cuccureddu. La risposta di Giggirriva fu – come sempre – un no su tutta la linea. Arrica abbozzò, per tutti i cagliaritani e i sardi il giovanotto di Leggiuno prese definitivamente posto nell’Olimpo, accanto agli Eroi della mitologia nuragica. Ora Gigi in Sardegna resterà per sempre a riposare in pace nel cimitero monumentale di Bonaria, davanti al suo mare.

Bomber a tutto tondo

Parlare di Gigi Riva come calciatore è di per sé un romanzo, nella gioia senza respiro delle vittorie e nel dolore dei tremendi infortuni subiti, autentici sacrifici umani compiuti sull’altare del Dio Pallone. I numeri sono più eloquenti di mille parole. Dal 1963 al 1977, anno del ritiro, Gigi Riva ha giocato 378 partite con i rossoblù tra A e B segnando 208 reti, più di mezzo gol a partita. Al Cagliari arrivò dal Legnano, dove esordì in serie C, per una straordinaria intuizione del Presidente Andrea Arrica che lo comprò per 35 milioni dopo averlo visto giocare (e segnare) a Roma con la Nazionale juniores, strappandolo al Bologna di Dall’Ara che tentò inutilmente un rilancio a 50 milioni a firme già apposte.

Tre volte capocannoniere in campionato: 1966-7, 1968-9 e 1969-70 nell’anno dello scudetto della banda che calcava lo storico Amsicora guidata dal filosofo lunare Manlio Scopigno e composta, tra gli altri, da campioni del calibro di Albertosi, Niccolai, Gori, Domenghini, Nené, Greatti: nessun sardo di nascita ma tutti sardi nell’anima. Ancora più perentorio il tabellino in maglia Azzurra: 35 reti segnate in 42 presenze Riva è tuttora il capocannoniere della Nazionale con una media-gol di 0,83 reti a partita. Prima dei Mondiali del ’70 il numero undici aveva giocato sedici partite in Azzurro arrivando a segnare 19 gol, media mostruosa.

Il suo palmares in Azzurro lo vede campione d’Europa nel 1968 (con gol nella seconda finale contro la Jugoslavia), vicecampione del Mondo nel 1970, eliminato ai gironi nella tragica debacle del 1974 che segnò il crepuscolo della generazione di Riva-Mazzola-Rivera. Nel 1966 la miope valutazione di Mondino Fabbri fece sì che Gigi fosse incluso – con l’aitante e solido Mario Bertini – nella delegazione azzurra in Inghilterra ma solo come aggregato in viaggio premio e non nella lista dei 22. Una decisione che fece ribollire il fuoriclasse che sarebbe stato di gran lunga più utile in campo all’anemica Nazionale ridicolizzata dalla Corea del Nord.

Raccontò di essersi sfogato durante le partitelle di allenamento in cui vestiva la maglia della Nazionale B umiliando a suon di gol i rivali della Nazionale “eletta” di Fabbri: “Segnavo, segnavo, segnavo: ero tanto in forma, quanto imbestialito”.

Alla causa azzurra ha lasciato anche due peroni, il sinistro il 27 marzo 1967 per un’entrata del portiere portoghese Lopes, quello destro il 31 ottobre 1971 per un’entrata efferata a forbice del difensore Norbert Hof, riprendendosi da entrambi con caparbietà e determinazione. Tant’è che nel 1971 disse che al rientro avrebbe sperato di trovare subito un terzino che menasse, per saggiare così il pieno recupero atletico e ribadire il suo coraggio al limite della temerarietà. A parziale consolazione del mondiale perso contro i fenomeni carioca Gigi Riva vinse a bordo campo il mondiale del 2006 come Team manager della Nazionale di Marcello Lippi. E anche lì si distinse per fermezza, quando scese dal pullman della squadra nella marcia trionfale intorno alle Terme di Caracalla con la Coppa del Mondo per la rabbia di vedere salire a bordo politici fin a qualche giorno prima critici sulla spedizione Mondiale del dopo-Calciopoli.

Rombo di Tuono, il condottiero

I suoi talenti, potenza, coraggio, velocità e acrobazia, sono stati sintetizzati nell’ormai epico soprannome Rombo di Tuono. Gianni Brera lo coniò il 25 ottobre 1970. Accadde nel campionato post scudetto, dopo la vittoria del Cagliari a Milano contro l’Inter per 3-1 con doppietta di Riva per celebrare la violenza del tiro e il fragore secco prodotto dal calcio al pallone, che udì lui stesso dalla tribuna di San Siro. A testimoniare gli effetti dei suoi tiri fu pure uno sfortunato raccattapalle che si era accucciato vicino alla porta per assistere all’allenamento del Cagliari al campo dell’Acqua Acetosa. Una cannonata di Riva lo colpì al braccio e glielo fratturò, con profondo dispiacere del bomber. A far calare il sipario sulle gesta di Gigi Riva fu l’ennesimo incidente, il distacco di un tendine patito il 1° febbraio 1976 al Sant’Elia dopo uno scontro con lo stopper del Milan Aldo Bet. Di fronte all’ennesimo ghigno del destino Giggirriva alzò bandiere bianca, entrando poi nei quadri societari del Cagliari.

In tanti hanno dato di Gigi Riva le definizioni più disparate. Da Gianni Brera, che lo aveva ribattezzato inizialmente Re Brenno, per celebrarne le radici celtico-lombarde, e che lo ha immaginato condottiero e capitano di ventura alla conquista di “città e castella”, a Gianni Mura, che ne sottolineò le qualità morali definendolo Hombre vertical, fino alla più singolare delle raffigurazioni, quella di Pierpaolo Pasolini, che del campione fece questo ritratto: “Gigi Riva gioca un calcio in poesia. Egli è un poeta realista”. Nel 1982 il musicista sardo Piero Marras compose per lui la canzone “Quando Gigi Riva tornerà”, vedendo in lui la speranza messianica di una umanità da sottrarre a una vita “in fallo laterale”.

Braccia al cielo

L’Arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi, nell’omelia funebre ha ricordato che lo sport è gioia e dono del Creatore e non si può comprare, chissà se dalle parti di Fifa, Uefa e Federcalcio a qualcuno saranno fischiate le orecchie. Baturi ha celebrato in Gigi Riva lo sport come vita, arte, disciplina e passione condivisa, esortando la sua anima a correre di nuovo tenendo in alto le braccia al cielo. Di gol spettacolari Riva ne ha segnati tanti, basti ricordare la storica rovesciata al Lanerossi Vicenza o il gol di testa in tuffo alla Germania Est. Ma a proposito della gioia di sollevare le braccia al cielo un ultimo fotogramma: Gigi Riva nei supplementari di Italia-Germania all’Azteca, riceve una palombella da Domenghini, la placa con dolcezza, vede arrivare Schnellinger ma lo elude perfido con un tocco di sinistro che gli permette di prendere la mira e calciare incrociando sul secondo palo, beffando Maier.

Riva corre, leva lo sguardo e le braccia al cielo, mormora qualcosa, ebbro di gioia bambinesca, poi si lascia cadere esausto all’abbraccio di Rivera. In quella immagine c’è tutta la meraviglia del calcio e la gloriosa epopea di Giggirriva.

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