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Inghilterra: stasera a Wembley il tributo a Sir Bobby Charlton

Il saluto della Nazionale inglese a un mese dalla scomparsa

di Roberto Vena – Sarà il tempio calcistico di Wembley il santuario laico in cui stasera si celebrerà il solenne tributo della Nazionale inglese a Bobby Charlton, scomparso il 21 ottobre scorso. Con la maglia dei Tre Leoni – in campo stasera contro Malta per le qualificazioni agli Europei 2024 – Charlton è sceso in campo per 106 volte, segnando 49 gol e vincendo i Campionati del mondo del 1966.

Bobby Charlton è stato un predestinato, sopravvissuto come una salamandra alla prova del fuoco e per questo premiato in Terra con una carriera lunga e vincente, prima da giocatore-simbolo del Manchester United (758 presenze e 249 gol in totale dal 1956 al 1973) poi da Grande Vecchio nel consiglio di amministrazione dei Red devils. Un lungo sentiero di capacità applicata al calcio dentro e fuori dal campo che si è interrotto solo due anni fa quando un male irrispettoso lo ha consumato fino a spegnerlo all’età di 86 anni.

L’incidente aereo di Monaco

Che si trattasse di un calciatore baciato dalla Dea bendata lo si capì il 6 febbraio 1958 quando il ventunenne Bobby (nato l’11 ottobre 1937 ad Ashington, nel Northumberland) fu salvato dalle fiamme che avvolgevano la fusoliera dell’aereo di linea che riportava a casa da una trasferta di Coppa dei Campioni a Belgrado la squadra dello United. Quel Manchester della generazione dei Busby babes, forgiata dall’allenatore Matt  Busby.

Il velivolo con 44 persone a bordo precipitò al suolo dopo il terzo tentativo di decollo dalla pista dell’aeroporto di Monaco di Baviera, dove aveva fatto scalo, resa insidiosa dalla neve.
Bobby fu letteralmente strappato alla morte da Harry Gregg, portiere dello United che oltre a Charlton salvò anche l’altro compagno di squadra Jacky Blanchflower e un bambino. In quella nuova Superga morirono 23 passeggeri, otto erano giovanissimi calciatori del Manchester United. Tra loro anche Duncan Edwards la stella nascente, centrocampista giudicato il più talentuoso, più dello stesso Charlton, di quella covata di calciatori della “football nursery” mancuniana che crescevano sotto la guida ispirata di Busby.

Il predestinato

Forgiato dal fuoco distruttore, Charlton si consacrò all’altro fuoco, quello agonistico che è stato il suo tratto distintivo. Lo ha pervaso in tutta la carriera coniugandosi con le qualità tecniche, la visione di gioco e la capacità di interpretare in chiave moderna il ruolo di centrocampista offensivo. Era abile a farsi trovare all’improvviso nell’aria avversaria per concludere a rete. L’incidente frenò, ma non interruppe la rinascita del Manchester United. Dopo la tragedia la squadra, seppur decimata dalle morti precoci di tanti bravi calciatori, risorse dalle ceneri e trovò in Bobby Charlton e nel suo carisma il faro che ne illuminò il cammino.

Da capitano Charlton vinse prima due campionati inglesi – nel 1964-65 e nel 1966-67 – una FA Cup e poi la Coppa dei campioni nel 1968, quando i rossi, che schieravano in attacco la micidiale Trimurti Best-Charlton-Law, trionfarono in finale a Wembley 4-1 sul Benfica della Pantera nera Eusebio.
Fu il primo club inglese a vincere la Coppa dalle grandi orecchie e Sir Bobby sollevò la Coppa al cielo di Londra per farla accarezzare anche dai suoi compagni di squadra morti 10 anni prima. A consacrarlo campione indiscusso fu poi il Pallone d’oro, vinto quello stesso anno. A favorire la crescita tecnico-tattica di Charlton era stato Alf Ramsey, l’allenatore che guidò la Nazionale dei Tre leoni al successo nei mondiali casalinghi del 1966. Ramsey era salito agli onori della cronaca per aver vinto nel 1962 la First division in modo del tutto sorprendente con l’Ipswich Town.
In Nazionale decise di cambiare posizione a Charlton, dall’ala sinistra al centro, tra centrocampo e prima linea, facendolo fungere da trequartista o, a volte, da centravanti di manovra. Un falso nueve, come si direbbe ora, abile nel muoversi all’indietro per risucchiare il suo marcatore e far spazio ai compagni, lanciandosi fulmineo in area per chiudere a rete, come attestano i suoi 49 gol in 106 partite con i Bianchi d’Inghilterra.

Nel suo saggio “Il mestiere del calciatore” Gianni Brera ci offre il ricordo di un “atleta ammirevole che correva come un ossesso”. Brera scrive che Charlton “indietreggiava per ricevere i disimpegni dei compagni di difesa o dialogava con Nobby Stiles”, ruvidissimo mediano di quantità e randello, “avanzava scambiando con le ali e poi tentava l’appoggio basso verso i centravanti, oppure lasciava che lanciassero le ali verso i due centravanti per poi avvicinarsi all’area e concludere da fuori o dal limite”.

Per alcuni Bobby Charlton è stato il primo centrocampista moderno, un calciatore “totale” ante litteram. E qualcuno azzarda di rivederlo nelle mosse eleganti e negli sprint velenosi di Jude Bellingham, stella madrilista con le stimmate del fuoriclasse. “Non c’è mai stato un calciatore così apprezzato. Era vicino alla perfezione, come uomo e giocatore“, ha detto di lui il suo mentore Matt Busby.

Il titolo di Sir

Tra le sue partite-simbolo nella Nazionale si ricorda in particolare la semifinale del Mondiali del 1966, quando con la sua doppietta l’Inghilterra superò 2-1 il Portogallo di Eusebio, Torres, Coluna e Simoes volando in finale per conquistare la Coppa Rimet contro la Germania nel celebre incontro del gol fantasma (il 3-2 di Geoff Hurst).
La vittoria mondiale – condivisa con suo fratello Jack, difensore tignoso e spiccio – gli valse anche il titolo di Sir, conferito dalla Regina Elisabetta II a tutto il team dei Leoni d’Inghilterra.

Stasera, dopo il commosso saluto che già gli ha tributato il popolo dell’Old Trafford durante una partita di Premier e dopo il funerale celebrato pochi giorni fa a Manchester, seguito da un corteo di decine di migliaia di persone, anche la Nazionale saluterà Bobby il predestinato, suo figlio prediletto.

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