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Ricordi di calcio: “Gli azzurri, Beirut e la guerra”

Silio Rossi racconta curiosità, incontri e storie di calcio vissute

Silio Rossi

di Silio Rossi – “Quando papà è andato a Beirut…“, per tanto tempo è stato questo l’inizio di un racconto-tormentone, a casa, per convincere mio figlio Stefano, che aveva appena tre anni, a mangiare. Gli dicevo di quello che avevo visto e che mi aveva tristemente appassionato. Parlavo della guerra, dei soldati sulla pista dell’aeroporto, armati di tutto punto, degli elicotteri che avevano fatto da scorta agli azzurri della Nazionale di calcio e a noi giornalisti, del pericolo che, quando meno te l’aspettavi, c’era il rischio che ti arrivasse una bomba. Stefano ascoltava, mi guardava serio e preoccupato ma mandava giù quello che la madre gli aveva preparato.

In Libano ci sono stato davvero, 40 anni fa. Non ci sono andato da solo. E’ stata un’esperienza seria, importante, emozionante. Uno di quei momenti che difficilmente riesci a dimenticare e che, oltre a trovarti solo, se pensi che sei là per una partita di calcio e ti senti in guerra, ti regalano sensazioni diverse e indimenticabili.

Eravamo tutti preoccupati ma anche felici di poter effettuare un servizio giornalistico diverso dal solito, di occuparci, seppure in maniera distaccata, di guerra e di militari, che erano là per evitare che il conflitto si allargasse e che altra povera gente dovesse lasciare le già tanto disastrate abitazioni e mettersi in cammino con i loro bagagli, verso chissà quali destinazioni.

A leggere i resoconti il giorno dopo, una volta tornati a casa, un po’ tutti pensammo di aver capito lo spirito di quella nostra semplice missione e che quello che avevamo scritto sui giornali era stato fatto certo con la curiosità di chi, in quei momenti assiste a cose nuove, ma assolutamente con il cuore.

Sul piccolo aereo, decollato da Larnaca, c’era un silenzio rispettoso. Sapevamo di quello che avremmo vissuto da vicino, degli argomenti che avremmo trattato con quei nostri soldati, in quella giornata, e dei delicati temi di cui ci saremmo occupati. Così, senza passarci la parola, in quell’ora e mezza di volo, non ci fu posto per le solite nostre battute o per gli scherzi che, in altre occasioni ci avevano simpaticamente coinvolto. Io ero vicino di posto a Enrico Mentana, allora alla RAI. Ogni tanto i nostri sguardi si incrociavano e sprizzavano stupore e rabbia. Perché dai finestrini dell’aereo si capiva che sotto di noi c’era la guerra e si stava consumando una tragedia.

Beirut, dunque. A febbraio del 1983 ero con la Nazionale italiana di calcio, che aveva in programma la gara di qualificazione agli Europei di Francia dell’anno seguente. Nello stadio di Limassol, isola di Cipro, per una partita che, secondo pronostico, avrebbe dovuto essere una passeggiata. Gli azzurri erano campioni del mondo, i ragazzotti, tanto cari all’Arcivescovo Makarios, almeno sulla carta, non rappresentavano un serio pericolo. Semmai l’incontro avrebbe dovuto dare alla formazione di Bearzot una  tranquilla qualificazione alla manifestazione francese e quel giorno, la spinta giusta per per essere a Beirut con uno spirito sereno e vivere qualche ora insieme con i soldati italiani, raggruppati insieme con i colleghi americani, francesi e inglesi. Oltre che portare parole di conforto e qualche sorriso in più per vedere deposte le armi e dimenticata la guerra.

L’Italia del calcio si presentò a Limassol, allo Tsirion Stadium, con la terza stella sul petto. I ciprioti sembravano non esserne preoccupati e partirono con grande impegno. Segnarono per primi, pareggiò Ciccio Graziani, ma, nonostante qualche buona giocata in attacco, il risultato restò sull’ 1-1, un punteggio che, purtroppo non aiutò gli azzurri per la qualificazione all’Europeo, visto che anche le gare successive trovarono la formazione italiana fiacca e forse appagata del mondiale spagnolo.

Noi eravamo a Beirut, insieme con la squadra perché l’allora Ministro della Difesa, Lelio Lagorio, aveva chiesto alla Federcalcio la disponibilità di poter avere gli azzurri a “Sabra e Shatila”, le due fasce di territorio controllate dai nostri militare. Così da Limassol tutti noi, squadra e seguito, fummo imbarcati su una nave fino a Larnaca da dove, caricati su un aereo militare, scortato da otto enormi elicotteri americani, raggiungemmo l’aeroporto di Beirut, dove non c’erano controlli e dove i militari messi a guardia erano chiamati ad espletare le poche formalità.

Il contingente italiano era comandato dal Generale di Corpo d’Armata, Franco Angioni, un ufficiale di Civitavecchia, un soldato vero, forgiato dall’Accademia Militare dell’Annunziatella e dai comandi che via via gli erano stati assegnati. Grande umanità, grande spirito di sacrificio, grande capacità nel tenere unita la truppa e dialogare con quel popolo che ogni giorno, da quella Missione di Pace, si aspettava fatti concreti, non solo parole.

Quando siamo arrivati – confessò Angioni – era palpabile l’aria della tragedia. Le macerie fumavano, la disperazione e la paura della gente si avvertivano in ogni angolo. Ci guardavano con la speranza. Forse dai nostri sguardi hanno capito che volevamo aiutarli“.

Una volta tornato in Italia il generale Angioni fu candidato per la Camera dei Deputati in un paio di legislature. Grazie a quella difficile e pericolosa esperienza a Beirut, gli elettori, riconoscendone le alte qualità di comando, lo aiutarono ad entrare in Parlamento.

Noi, insieme con gli azzurri, portammo, sicuramente, una ventata di speranza, un sincero, sentito, conforto di chi, fortunatamente, è lontano da certe situazioni ma riesce, ugualmente a raccoglierle, capirle e dividerne le sensazioni con chi ha un cuore.

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