di Silio Rossi – Il 3 novembre del 1999, all’età di 77 anni, muore Romeo Anconetani, il presidente che portò il Pisa al tavolo dei grandi del calcio italiano.
Per anni Romeo Anconetani è stato l’indiscusso “sire” del calcio toscano. Comandava lui, forte dell’esperienza maturata e delle furberie messe in campo già quando era alle prime armi. Pur avendo conseguito il diploma in disegno artistico, aveva capito che soltanto col pallone si potevano fare i soldi, si veniva ammessi al tavolo dei grandi e magari si riusciva a carpire segreti e strategie vincenti.
Aveva iniziato come segretario del Lastra a Signa in quarta serie. Aveva 33 anni, il vigore e l’intelligenza giusta per capire come il calcio, con le brutte o con le buone, avrebbe fatto da antidoto ai disastri lasciati dalla Seconda Guerra Mondiale.
Che fosse scaltro si capì subito. Che fosse capace di ribaltare i regolamenti, qualche anno dopo, pure. E che una volta ravveduto, avrebbe avuto offerta la possibilità di creare, proprio a Pisa, una sorta di laboratorio del pallone, gestito anche nei piccoli particolari da lui, per Anconetani fu come scoprire l’acqua calda. Il periodo permetteva regolamenti elastici e, soprattutto, in quegli anni gli italiani erano costretti a pensare ad altro.
Iniziò dai dilettanti e dalla quarta serie. Con una trasgressione, una “pazziella“, come avrebbe detto Totò. Fu pescato, insieme ad altri, a “intortare” l’incontro Poggibonsi-Pontassieve, due formazioni del campionato toscano, per la cui gara Anconetani e i suoi soci, avevano preparato un risultato che finiva col favorire il Prato, la società per la quale i nostri lavoravano e si erano esposti.
La combine fu scoperta e dalle indagini apparve subito chiara la colpevolezza di Anconetani e dei suoi amici e la giustizia sportiva non poté fare a meno di radiare Romeo, considerato il manovratore delle trattative.
Fatta la legge, trovato l’inganno. Grazie a una licenza della Camera di Commercio di Pisa, Anconetani restò in quel mondo con la qualifica di mediatore, un antesignano procuratore di oggi, con la possibilità di occuparsi principalmente del mercato. Un escamotage, secondo lui, prima a vantaggio di alcuni club che, “si avvalgono della mia esperienza“, diceva, e poi dal 1978 a vantaggio del Pisa dove riuscì a portare calciatori di grandissimo livello, pagati il giusto e rivenduti a un prezzo tre-quattro volte superiore a quanto aveva sborsato.
La riabilitazione per Anconetani arrivò grazie ai mondiali di Spagna del 1982. L’amnistia restituì al calcio italiano un dirigente diverso, più giudizioso, sicuramente meno spavaldo e più rispettoso delle regole.
Adesso “cazziava” chiunque del suo gruppo si fosse permesso di mettere in dubbio le norme federali, verso le quali lui stesso era diventato un attento osservatore: di fronte a situazioni scivolose era ormai solito usare la sua formula magica: “Nel rispetto delle norme federali, non possiamo rispondere a questa domanda“.
Insomma se qualcuno, tecnici o calciatori, magari nel giusto, contestava le istituzioni federali o gli arbitri, Romeo era pronto a intervenire e rimettere in riga tutti quanti.
Riprendeva soprattutto gli stranieri Berggren, Kieft, Chamot, Dunga e il “Cholo” Simeone, abituati nei loro Paesi a dire liberamente ciò che pensavano, ma che ora si scontravano col regime di disciplina assoluta che Anconetani pretendeva dalla squadra.
Neanche agli allenatori gradivano quel clima da “caserma”, e mal tolleravano che il loro presidente mettesse bocca su tutto, persino sulla formazione della domenica. Chi non si adeguava veniva esonerato o costretto alle dimissioni. Successe ad esempio con Aldo Agroppi. Il tecnico livornese inizialmente non perdeva occasione per lodare le iniziative del suo datore di lavoro: il controllo sui calciatori, i regali con i quali Romeo si scatenava nei pomeriggi del sabato. Ma poi fece in fretta a ravvedersi e quando capì che la presenza del presidente si faceva sempre più ingombrante, per evitare lo scontro frontale, gli telefonò dalla sua casa di Piombino: “Presidente non torno. Preferisco vivere“.
Spesso Romeo se la prendeva con i giornalisti: quando alzava i toni, dopo una partita, o durante un ritiro, non si salvava nessuno. Ce l’aveva con tutti. Con quella voce gracchiante era capace di affibbiare insulti gentili o, nella peggiore delle ipotesi, augurare maledizioni e addirittura brutte malattie.
Comunque, lui, il vecchio Romeo, nel suo piccolo, è stato un grande. Se non altro ha costretto i suoi “colleghi” Boniperti, Viola, Fraizzoli, Ferlaino e in ultimo Berlusconi a farlo accomodare al tavolo dei nobili per discutere di contratti, di ingaggi e di trasferimenti.
Con Anconetani a Pisa arrivarono giocatori di primissimo livello. Molti dal Nord Europa, tanti dal calcio italiano, ma soprattutto dal Sudamerica dove scoprì José Chamot, Diego Pablo Simeone e Carlos Dunga. Per mesi Anconetani urlava che non avrebbe mai ceduto il brasiliano, men che mai ai rivali toscani della Fiorentina, che ogni giorno tentava di assicurarselo: “Alla Viola Dunga non lo do“. Era uno stratagemma per far abboccare la società di Firenze e costringerla ad alzare il “montepremi”. Fu così. Per Dunga il Pisa aveva sborsato 700 milioni al Vasco da Gama, la Fiorentina, pur di averlo, pagò un miliardo tondo tondo.
Sempre tanti i progetti di Anconetani. L’ultimo quasi alla fine della carriera da presidente, nella stagione 91-92, ormai stanco di un calcio ormai cambiato: unire il Pisa con i Livorno, farne una sola squadra, chiamata Pisorno. Un po’ anche per dare fastidio alla Fiorentina. Furono studiati tutti i particolari, riunione di tecnici, chiarimenti richiesti da Lega e Federcalcio, fascicoli zeppi di informazioni e coinvolgimento di fiscalisti, ingegneri e avvocati.
Non se ne fece nulla perché i pisani si ribellarono all’idea, perché loro: “co’ livornesi non avevano nulla da spartire“. D’altronde un vecchio proverbio di quelle parti, che la dice lunga ancora oggi sul rapporto tra le due città, recita: “Le chiacchiere le porta via il vento, le biciclette i livornesi“.
Romeo Anconetani lasciò definitivamente il calcio nel 1994, dopo il fallimento del Pisa per un buco di 27 miliardi di lire.
Leave a comment