di Stefano Greco – Quel 28 ottobre del 1979 sembrava una domenica come tante altre, un derby sentito sì ma come tanti altri, come tutte le stracittadine di questa città che da sempre si nutre della rivalità tra Lazio e Roma.
L’appuntamento quella domenica era come al solito alle 9 di mattina, per stare al massimo alle 10 dentro lo stadio, per entrare nei magazzini che avevamo in dotazione all’Olimpico e prendere il materiale accumulato per settimane.
Striscioni per vestire la Curva, decine di tamburi per dimostrare agli altri di essere più ricchi e più potenti (allora si ragionava così…), centinaia di torce ed estintori per dare a quella parte di stadio un aspetto quasi spettrale. Insieme a tutto quel materiale, c’erano due borse piene di razzi navali, quelli che si usano in mare per lanciare un SOS in caso di naufragio o di avaria.
Ne avevamo comprati tanti, direttamente a Genova o reperiti a Roma ai “Magazzini Rossi”, tra il negozio di Piazza Augusto Imperatore e quello di Viale Mazzini, a due passi dalla sede della Rai. Quei razzi li avevamo provati per la prima volta il 17 settembre, in una serata di Coppa Italia contro il Vicenza. Alcuni avevano una sorta di percussore sotto che sbattuto a terra faceva partire quell’anima interna luminosa. Il primo che usammo, dal muretto della Curva Sud finì addirittura contro la vetrata che divideva la Tribuna Tevere non numerata dalla Curva Nord.
Capimmo immediatamente la bellezza ma anche la pericolosità di quei razzi, quindi il secondo (quello che funzionava tirando un gancetto che provocava la percussione e quindi la partenza dell’anima interna del razzo) lo sparammo in alto, seguendo affascinati con lo sguardo quella luce che saliva in cielo per poi scendere lentamente senza perdere intensità, fino a toccare terra. Ne avevamo più di una dozzina di quei razzi quella domenica nel magazzino posto nella pancia dell’Olimpico, tra la Tribuna Tevere Numerata e la non Numerata, fatti entrare durante la settimana per aggirare qualsiasi controllo. Ma quando passando come sempre con regolari permessi dai cancelli della Tevere Numerata entrammo poco prima delle dieci dentro lo stadio, trovammo la porta del magazzino semi-aperta.
Ricordo ancora le facce, il gelo dentro, poi la rabbia quando entrando trovammo la devastazione. Era stato rubato tutto. Entrammo in Curva Nord furibondi. Ci riunimmo subito per decidere che cosa fare, con la rabbia che aumentava vedendo tutti quei muri bianchi della Curva Nord completamente imbrattati con la vernice, con scritte offensive a caratteri cubitali. Qualcuno, durante la notte, aveva consentito ai tifosi della Roma di entrare dentro lo stadio e di realizzare quel blitz.
Mentre tra il parterre e il piazzale tra le gradinate e i cancelli si decideva che cosa fare, dalla Curva Sud parte un primo razzo, seguito da un boato.
Il razzo vola dritto per dritto verso la Curva Nord, andando però alto, oltre il tabellone luminoso. Neanche il tempo di realizzare che forse quelli erano proprio i razzi che ci erano stati rubati in quel blitz notturno, che dalla scalinata centrale che porta al parterre parte un secondo razzo, che vola sempre dritto per dritto ma più basso: e stavolta finisce sugli spalti che si stavano riempiendo, in mezzo alla gente.
In pochi secondi, si passa dal boato della Curva Sud alle urla delle persone che stavano in Curva Nord nei pressi del punto dove è finito il razzo. Vediamo gente con le mani nei capelli, sentiamo persone che invocano soccorso, altre che scappano terrorizzate mentre dalla Curva Sud parte un terzo razzo, che finisce però anche questo alto, oltre le gradinate. Ricordo di aver salito i gradini delle scale a tre a tre con il cuore in gola e quando sono arrivato gli infermieri dell’ambulanza stavano portando via una persona in barella.
Sugli spalti, sangue ovunque e il racconto agghiacciante di quello che era successo da parte di chi stava nei pressi. “Lo hanno ammazzato, lo hanno ammazzato”, gridava una signora in lacrime e in preda a una crisi.
Noi ci guardavamo e non capivamo, non riuscivamo a realizzare come quel razzo avesse potuto addirittura uccidere una persona. Ci sembrava assurdo. Scendemmo verso il posto di Pronto Soccorso per avere notizie e davanti a quelle persone abituate a vedere la morte, ma con le facce stravolte per quello che avevano appena visto, venimmo a sapere che cosa era realmente successo.
“Gli è entrata in testa la parte metallica del razzo, nell’occhio sinistro. Era ancora vivo quando è salito sull’ambulanza, ma la situazione era disperata”.
Mentre centinaia di persone fuggivano dalla curva in preda al panico, implorando gli addetti ai cancelli di farli uscire dallo stadio, alle 14.15 arriva la notizia: “Vincenzo Paparelli, un meccanico di 33 anni tifoso della Lazio e padre di due figli, è morto poco fa all’ospedale Santo Spirito dopo essere stato colpito sugli spalti dello Stadio Olimpico da un razzo lanciato dalla Curva Sud dai tifosi della Roma”.
Non esistono i telefoni cellulari, la notizia la da Paolo Valenti dagli schermi della Rai e viene subito rilanciata dalla radio e dal passaparola tra tifosi. E ha l’effetto di una bomba. Il dolore per quel gesto folle e per quella morte assurda, si aggiunge alla rabbia per quello che era già successo durante quella mattinata e diventa una miscela esplosiva.
Qualcuno si lancia verso le vetrate che separavano la Curva Nord dalla Tribuna Tevere non Numerata per aprire un varco, con l’obiettivo di arrivare in Curva Sud. Altri vanno verso le vetrate della Monte Mario per fare altrettanto, perché da lì il percorso è più breve.
Boati, urla di rabbia, sirene della polizia e quel coro “assassini, assassini” urlato a piena gol che a 44 anni di distanza ti fa ancora accapponare la pelle. Chiudendo gli occhi, in un istante rivivi tutto di quella domenica, compreso quel groppo alla gola sentito quando quella signora ha urlato “l’hanno ammazzato, l’hanno ammazzato”.
E oggi come quel 28 ottobre del 1979 e come ogni 28 ottobre da allora, scende una lacrima per quella morte assurda, accompagnata da un brivido per la consapevolezza che quello che è successo a Vincenzo Paparelli poteva succedere ad ognuno di noi quel giorno.
Il seguito, è il racconto di un pomeriggio di follia.
I tentativi di invasione di campo, i Carabinieri a presidiare la porta sotto la Curva Nord in assetto di guerra, l’ingresso in campo delle squadre con lo stadio mezzo vuoto nonostante i 70.000 biglietti venduti con Wilson e Giordano che cercano di calmare la gente e di spiegare che si deve giocare per evitare il peggio, ovvero lo svuotamento dello stadio con il rischio di scontri ovunque. Ma la gente non ne vuole sapere. Quella partita non si deve giocare.
La “farsa”, invece, va in scena, mentre tutta la parte laziale dello stadio urla “Assassini, assassini”, un coro tristemente noto in quegli anni di piombo, ma che si ascoltava solo nelle piazze, non dentro uno stadio. E di solito veniva indirizzato alle forze dell’ordine. Un urlo che gela il sangue e fa montare la rabbia.
E mentre in campo la Lazio segna con Zucchini dopo pochi minuti e Pruzzo pareggia quasi immediatamente, la vera partita si svolge fuori dallo stadio.
I cancelli della Curva Nord sono aperti e incustoditi. C’è gente che entra ed esce senza nessun controllo e centinaia di persone in assetto da guerra lasciano la Nord diretti verso la Sud, pronti ad entrare nella curva “nemica”, decisi a tutto per vendicare quella morte. Oramai non c’è più nessun controllo, all’Olimpico arrivano poliziotti e carabinieri da ogni caserma della città.
Ricordo gli scontri, i lacrimogeni, il tentativo di abbattere in cancelli sul piazzale della “palla” che consentivano l’ingresso in Curva Sud, tanti tifosi della Roma che da dietro il cordone di polizia lasciavano lo stadio temendo il peggio.
Il tutto, mentre su quel prato verde andava in scena la farsa. Perché, come abbiamo visto anche successivamente, purtroppo, se muore un tifoso lo spettacolo deve comunque andare avanti. Perché da sempre in questo paese (rigorosamente minuscolo in questo caso) ci sono morti di Serie A e morti di Serie B. E i tifosi, forse sono addirittura la Serie C.
Nessuno riuscì ad abbattere quei cancelli e a 44 anni di distanza, con la lucidità dei 61 anni e non con la rabbia cieca dei 17 anni, posso dire: per fortuna! È stato meglio così, perché altrimenti chissà che cosa sarebbe potuto succedere.
Ma quelli successivi in città furono giorni da caccia all’uomo, con i capi tifosi della Roma (alcuni dei quali erano amici d’infanzia, come Antonio Bongi) che giuravano di essere assolutamente all’oscuro di quel piano, che quella cosa era stata messa in piedi da un gruppetto di cani sciolti.
Quella morte portò ad anni di odio cieco e fu la causa anni dopo dell’aggressione ai giocatori della Roma allo stadio Flaminio durante un’amichevole tra la Lazio e la Nazionale Under 21.
L’autore di quell’omicidio, Giovanni Fiorillo, detto “tzigano”, riesce a fuggire da Roma, ma dopo 14 mesi di latitanza si costituisce. Durante quei mesi di fuga, chiama casa Paparelli e giura ad Angelo, il fratello di Vincenzo, che non aveva sparato quel razzo per uccidere. Una versione che non convince nessuno, visto che per dirigere meglio quei razzi era stato usato un tubo di ferro a mo’ di bazooka. Il giorno della prima udienza del processo, sono andato in tribunale per guardare in faccia Fiorillo, per trasmettergli con lo sguardo tutto l’odio che avevo provato in quei mesi.
Nel 1987 Fiorillo fu condannato in via definitiva a 6 anni e 10 mesi, ma non li scontò mai, perché dopo qualche anno morì per un male incurabile.
La cosa triste di tutta questa vicenda, quella che dovrebbe far vergognare ogni tifoso e ogni persona che si considera civile, è che dopo 44 anni c’è ancora chi intona cori del tipo “10-100-1000 Paparelli” o fa striscioni che considera ironico con scritto “Paparelli, te stai a perde gli anni belli”.
O imbratta i muri con scritte del tipo “Coppa in faccia? No, razzo in faccia”, come è successo per frustrazione dopo il derby del 26 maggio e come è successo anche di recente, di solito dopo una sconfitta della Roma nel derby. Scritte e frasi che per i familiari di Vincenzo Paparelli sono da quasi 45 anni una sorta di seconda condanna a morte, quasi una persecuzione.
Qualche anno fa, una sera a cena il figlio di Vincenzo Paparelli mi ha raccontato un episodio per me agghiacciante: “Pensa, per anni io la sera percorrevo la strada che avremmo fatto in macchina con mamma la mattina dopo, con un secchio di vernice e un pennello sempre dietro, perché se trovavo una scritta su papà la cancellavo per evitare a mia madre di leggerla. Per anni ho vissuto questo incubo”.
Ecco, chi ancora non ha capito e chi in modo ottuso e becero continua ad usare a sproposito il nome di Vincenzo Paparelli, dovrebbe riflettere su queste frasi pronunciate da un figlio che oltre ad aver dovuto affrontare la vita senza la guida di un padre, è stato costretto a vivere anche questo ulteriore incubo e da anni legge scritte infami e ascolta persone che insultano la memoria di un semplice tifoso.
Ogni anno, la Curva Nord ricorda Vincenzo con uno striscione enorme, non come si fa con i “martiri”, ma come si usa fare con gli amici che ti hanno lasciato ma che non dimenticherai mai. Perché nessuno di noi prima di quel maledetto 28 ottobre del 1979 conosceva Vincenzo Paparelli, per il semplice motivo ché lui non era un capo tifoso, non era un Ultras, era solo uno dei tanti che ogni domenica affollavano le curve di tutta Italia, perché magari non si potevano permettere di comprare un biglietto di tribuna.
Vincenzo Paparelli era solo uomo di 33 anni, ucciso sotto gli occhi della moglie e che aveva come unica colpa solo quella di amare il calcio e la Lazio. E anche per questo merita rispetto!
(articolo pubblicato per gentile concessione di Millenovecento – sslaziofans.it)
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