di Silio Rossi – Grazie a Dio la ripresa dell’attività dei campionati e la concomitanza con le gare europee di Coppa hanno da qualche giorno attutito i clamori della vicenda scommesse e zittito il solerte pifferaio che l’ha tirata fuori. Un po’ per suo vantaggio e molto perché quando si parla di scandali, soprattutto quelli nel gioco del calcio, la gente ci si tuffa senza “badare a spese”.
Che la cosa sia seria, da prendere per il giusto verso, comunque è la realtà e così in Federazione sono stati in tanti a lanciare avvertimenti, al punto che lo stesso presidente Gabriele Gravina, ha visto nuovi “scheletri” davanti alla sua stanza romana.
Insomma per quanto sia ripetitivo, e quindi stantio e senza costrutto, il lamento del ministro Salvini che ne ha chiesto le dimissioni, è il caso di riflettere e di continuare a scandagliare se ci siano altri giocatori che hanno scommesso e, perdendo, si siamo impoveriti.
Negli anni il mondo del pallone ha salutato parecchi scandali. In alcuni è stato pronto, il provvedimento tra squalifiche o addirittura allontanamenti dal calcio senza possibilità di ritorno; in altri, grazie a esperti di giustizia sportiva e al valore professionale degli avvocati chiamati in causa, ci sono state decisioni più leggere, che alla fine della fiera hanno accontentato tutti.
Tanti anni fa, eravamo nel 1986 al termine dei mondiali messicani, il presidente federale Federico Sordillo disse al momento di lasciare la poltrona più importante di via Allegri: “Al calcio servirà sempre un avvocato“. Questo prezioso ammonimento è ancora attualissimo e mantiene intatta la sua pertinenza alla luce di tutte le strane, nebulose e diverse situazioni che abbiamo davanti agli occhi. Anche se, pur indicato come “presidente perdente”, Gravina non sembra proprio deciso ad assecondare quanti ne chiedono le dimissioni come fece invece allora Sordillo.
“Al calcio servirà sempre un avvocato”. Federico Sordillo poteva permettersi di lanciare questi anatemi. Don Federico è stato, infatti, uno dei più grandi penalisti italiani. Le sue arringhe e le sue disquisizioni procedurali sono state pubblicate su montagne di trattati, dati come testo agli studenti che avevano scelto la giurisprudenza.
Eppure quando si toglieva la toga e si immergeva in cose più futili, quando parlava di calcio, o incontrava gli amici per raccontare qualche barzelletta, era davvero uno spasso ascoltarlo.
Lo ricordo da presidente federale a Zurigo saltare come un grillo, in un grande albergo dopo che la FIFA aveva tolto i veli sull’assegnazione del mondiale del ’90 e aveva scelto l’Italia. Commosso e raggiante girava attorno ai tavoli che la nostra Federazione, aveva fatto apparecchiare per festeggiare anche con i giornalisti inviati al sorteggio.
Don Federico era, giustamente su di giri. Anche se il risultato, dato poi da Joao Havelange, capo supremo delle operazioni, sembrava essere scontato, perché l’Italia aveva presentato le credenziali giuste per farselo assegnare.
Ottimo penalista, ma anche abile presidente di club. Visto che stava nel calcio dal 1964, legato alla Milano bene, parve scontato che il Milan lo chiamasse nell’organigramma. Prima come vice presidente per sette anni e successivamente promosso alla presidenza, dove rimase per sedici.
C’era ancora un altro riconoscimento che poteva essere alla sua portata: la poltrona più prestigiosa della Federcalcio. Il mondo del pallone infatti lo aveva voluto al fianco di Artemio Franchi e di Carraro, perché sperava che l’Italia potesse con lui acquistare “potere” a livello internazionale, dove sembravano sempre che ci mancasse qualcosa per stare al vertice.
E nel 1980, con un autentico plebiscito Sordillo conquistò la stanza più importante della nostra Federazione.
La sua fu una partenza in salita, perché si trovo ad arginare lo scandalo del “calcio scommesse”, a “sopportare” l’introduzione degli sponsor, e un’apertura più ampia delle frontiere, perché le nostre squadre potessero tesserare altri stranieri. Rinnovò la fiducia a Bearzot che aveva ben guidato gli azzurri nel mondiale in Argentina in vista anche di quello spagnolo che, bisogna dirlo, lo vide piuttosto titubante nelle prime uscite.
Prima di Vigo, Barcellona e Madrid, gli azzurri giocarono alcuni match amichevoli. In Lussemburgo l’Italia strappò un successo striminzito grazie a un solo gol.
Sordillo cercava di “fare il bravo” e non calcare la mano. Così al collega Peppino Pacileo de Il Mattino di Napoli, che gli aveva chiesto un parere sulla partita, il presidente rispose: “Mi pare bene, no?”. E così il saggio collega napoletano di rimando: ” Lei non è soltanto “sordillo”, ma mi pare che sia anche un po’ “cechillo”.
Vinto il mondiale spagnolo, ci furono altri guai da affrontare, ad esempio il pasticcio dei premi con i campioni del mondo concordati proprio con lui, con gli Azzurri che chiedevano fosse la Figc a farsi carico della tassazione pretesa dal fisco.
Poi scoppiò la grana delle frontiere da aprire con maggiore generosità, con l’incognita che per qualche buon atleta avremmo dovuto sorbirci un’autentica “calata di barbari”, nonostante Sordillo qualche mese prima avesse urlato: “Basta follie, basta stranieri”.
Il colpo di grazia arrivò nel 1984, quando la Nazionale mancò la qualificazione agli Europei e dietro le quinte iniziò la sua personale scalata alla Figc di Tonino Matarrese, presidente della Lega che puntava deciso alla Federazione.
Strategia che si concretizzò due anni più tardi, dopo il mondiale messicano, dove l’Italia campione del mondo, nel gioco e nei punteggi non riuscì a ripetere l’exploit meraviglioso di Espana 82, facendosi eliminare senza mai essere protagonista.
Si moltiplicarono i malumori degli altri dirigenti. Così Sordillo lasciò l’incarico con le dimissioni, al rientro in Italia degli Azzurri da Puebla. Gli sembrava l’unica strada percorribile.
Don Federico si allontanò dal calcio, lanciando quell’avvertimento durante la conferenza stampa di commiato: “Voglio dirvi una cosa. Io me ne vado, ma ho l’impressione che la Federcalcio, da ora in poi, avrà sempre bisogno di un avvocato“. E quella volta non era una barzelletta.
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