di Vincenzo Cerracchio – Il 16 ottobre del 1983, nel pomeriggio di una domenica romana baciata dal sole, Giorgio Chinaglia ridiscese in campo nel suo Olimpico per dare l’addio al calcio d’élite. Quarant’anni fa. In quarantamila allo stadio, un tripudio di biancoceleste punteggiato da qualche bandiera a stelle e strisce.
Perché la festa, il “Chinaglia day” come fu definito, prevedeva la sfida ovviamente amichevole tra la Lazio, di cui Giorgio era diventato presidente da qualche mese, il 13 luglio per l’esattezza, e i Cosmos, la squadra di New York in cui aveva giocato per nove anni fino a quel settembre, appena un mese prima, più amato e venerato dei suoi stessi mitologici compagni, Pelé, Beckenbauer, Neeskens, la “meglio anzianità” dell’epoca direte voi, ma pur sempre di inarrivabile classe e palmarès.
Il copione fu rispettato alla lettera: majorettes e paracadutisti, chiamata nominale ed entrata in campo singola, ovazione ad personam, un D’Amico di qua un Carlos Alberto di là per i ricordi d’autore, Laudrup (due gol) e Kaiser Franz da stropicciarsi gli occhi, Chinaglia per ultimo, maglia americana nel primo tempo, biancoceleste nella ripresa, gol del 3-1 finale a favore della Lazio al 76’ su imbeccata di Bruno Giordano, entrato solo per giocare un tempo con lui, in quanto reduce malconcio di una partita malamente persa il giorno prima dalla nazionale di Bearzot campione del mondo contro la Svezia.
Già, Chinaglia più Giordano, il bello, l’Assoluto biancoceleste invano accarezzato da quella generazione di tifosi. Un lampo, sogno e chimera. Inghiottito in un pomeriggio dalla festosa invasione di campo, da qualche lacrima ricacciata in fretta, da un pezzo di maglietta storica spartito in curva Nord. Archiviato in serata da una scombiccherata cena all’Hilton, bollata come un’americanata, per un vippaio di quattrocento spaesati invitati. Malinconicamente riposto subito dopo dalla realtà incontrovertibile di una Lazio balbettante dopo la sofferta promozione di Cava dei Tirreni, invischiata nei bassifondi in cinque giornate di campionato e con il peggio alle porte, un derby atteso e perso la domenica successiva. Con l’unico sollievo di una salvezza strappata un po’ così al fotofinish di Pisa.
Per chi ha voglia di altri appigli di cronaca, va ricordato che in quel pomeriggio di gioia, spensieratezza e sogni vividi, fu ascoltato per la prima volta all’Olimpico il nuovo inno “Vola Lazio vola” commissionato proprio da Chinaglia presidente a Toni Malco, cantato in sala d’incisione da D’Amico, Giordano e Manfredonia e arricchito dal coro dei Milk and Coffee, reduci dal successo popolare del Festival di Sanremo. La risposta laziale al “Grazie Roma” di Venditti, quarant’anni quindi di derby musicale che si rinnova imperterrito.
Non fu una grande idea, ora a posteriori possiamo dirlo, quel passaggio di Giorgio dal campo alla scrivania.
Il goleador impeccabile dei multiformi record – gli hanno contato 530 reti ufficiali in vent’anni di carriera, 98 con la Lazio, 193 coi Cosmos dov’era più facile, 4 in nazionale (compreso quello dell’esordio assoluto in Bulgaria) in 14 presenze, sei titoli di capocannoniere, cinque campionati vinti – da dirigente ha conosciuto solo sconfitte amarissime, momenti drammatici, sconforto e solitudine, passi falsi, processi e gogna mediatica. Ma del resto tutto quello che ha fatto nella sua vita è frutto di una battaglia interiore tra un’assoluta generosità di fondo – lo spirito sportivo che lo portò a non saltare una sola partita con la Lazio nelle tre stagioni a cavallo dello scudetto del ’74, la correttezza di gioco macchiata (si fa per dire!) solo da una sceneggiata del portiere Boranga a Reggio Emilia che gli costò l’unico cartellino rosso in carriera – e l’impulso irrefrenabile a lanciarsi contro ogni mulino con l’ingenuità di un rodomonte vanamente mascherata da sprezzo.
Chinaglia ha vinto quando ha trovato compagni leali disposti a farsi trascinare nell’impresa; ha perso, quando ha pensato di farcela da solo, contro tutto e tutti, in un ruolo che non gli si attagliava. Ma questo finale quarant’anni fa non potevamo prevederlo. Per tutti i laziali era l’eroe che tornava, il “grido di battaglia” che ci faceva popolo.
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