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Accadde oggi – 15 ottobre 1967: muore Gigi Meroni, la Farfalla granata

Il suo calcio come rappresentazione della libertà

di Roberto Vena – Ci vorrebbe una dolente ballata beat, di quelle che si scrivono per raccontare una assenza che consuma o un amore perduto, per far da colonna sonora alla breve e tragica stagione di Luigi Meroni, per tutti Gigi, campione del calcio italiano e aspirante fuoriclasse, che solo la tirannia della morte ha strappato anzitempo alla gloria internazionale.

Oggi il calendario dei rimpianti ci ricorda del 56esimo anniversario della morte di Gigi Meroni, investito da un’automobile in una sera torinese che gli ha tarpato le ali.
Ali di farfalla a servizio di una mente libera, anticonformista, irregolare, si direbbe oggi. Col suo aspetto allora atipico per un calciatore, capelli lunghi e barba, con la sua passione per i Beatles, per le auto d’epoca (viaggiava in Balilla) per gli abiti che disegnava e si faceva confezionare dal suo sarto di fiducia. Appassionato d’arte (da ragazzo aveva lavorato come grafico nelle seterie di Como) e pittore lui stesso per nulla banale, tanto da meritarsi elogi da Renato Guttuso. E nel privato ancor più libero, addirittura scandaloso, come lo definirono la Chiesa e i borghesi perbenisti per via del suo amore “nel peccato” con la bellissima Cristiana, figlia di giostrai conosciuta a Genova, sposata con un altro ma nonostante questo compagna di vita dell’ala destra. Chiesa di allora che, in evidente deficit di Carità, cercò di negare a Meroni il funerale religioso.

Quel 15 ottobre del 1967 era stato un giorno di festa per i tifosi del Toro, i granata avevano annichilito per 4-2 la Sampdoria e quell’ala destra dall’apparenza esile e fragile, dal dribbling malizioso e inesorabile, aveva fatto ammattire il suo marcatore blucerchiato Giorgio Garbarini, già rassegnato al peggio sin da quando il suo mister Fulvio “Fuffo” Bernardini gli assegnò la marcatura del George Best italiano. Danzando in campo Meroni aveva servito tre assist all’amico Nestor Combin, che ringraziò e fece tripletta. La domenica successiva si sarebbe giocato il derby della Mole. Combin confessò a Meroni che un gol se lo sarebbe voluto tenere per la Juve, Meroni gli rispose “tranquillo, ne farai altri tre”. Dopo la vittoria sonante sulla Samp la tifoseria torinista era già elettrica, pregustava l’incornata ai bianconeri, ignara che la tragedia fosse dietro l’angolo.

Gigi Meroni era con il compagno di squadra e amico Fabrizio Poletti, il loro allenatore Mondino Fabbri, sopravvissuto faticosamente al disastro della Corea dell’anno precedente, aveva ordinato il rompete le righe alla squadra prima del solito, come premio per la vittoria sulla Samp.
Meroni e Poletti sono in strada su corso Re Umberto, lontani dalle strisce pedonali, la sera li avvolge. Si fermano sulla mezzeria, in attesa di passare. Una Fiat 124 Coupé, guidata dal diciannovenne Attilio “Tilly” Romero, tifosissimo del Torino e di Meroni, procede verso di loro, non frena sicuro di evitare i due, ma Gigi fa un passo indietro all’improvviso. Romero è sorpreso e non ha più il tempo per rimediare: sfiora appena Poletti ma prende in pieno Meroni a una gamba, lo fa sbalzare sull’altra corsia dove in quel momento Sorella Morte viaggia su una Lancia Appia che non può evitarlo, lo investe e lo trascina per 50 metri. Le sue condizioni sono disperate. Lo portano all’ospedale Mauriziano dove muore due ore dopo. Aveva 24 anni.

Al suo funerale partecipano 20mila persone unite dal dolore umano e calcistico. Quindici anni dopo la tragedia di Superga, il Torino e l’Italia sportiva vivono di nuovo un dolore lancinante, insopportabile.

Il commediografo greco Menandro scrisse che “muore giovane chi è caro agli Dei”. Quella morte prematura impedì a Gigi Meroni di completare il suo percorso calcistico che lo avrebbe reso un riconosciuto fuoriclasse mondiale, trasfigurandolo tuttavia in un mito invincibile.

Attilio Romero, manager torinese, portò alle estreme conseguenze il suo cammino di espiazione diventando presidente del Torino nel 2000. Nella sua camera c’è sempre la foto di Gigi. “Da mezzo secolo tutte le sere lo riguardo in quella foto – disse in un’intervista – Il senso di angoscia non mi lascia, e non mi lascerà mai. Il giorno sbagliato ritorna tutti i giorni come una condanna. La casualità del destino, o il destino della casualità. E io lì in mezzo, sballottato da onde che mi inghiottiscono da 50 anni. E Gigi che muore, e rimuore sempre, muore ogni volta”.

Meroni nasce a Como il 24 febbraio 1943, in un’Italia ancora in guerra. Dopo i primi calci nel campetto sotto casa in compagnia del fratello maggiore Celestino, il suo cammino calcistico comincia a sette anni quando entra all’oratorio di San Bartolomeo, vestendo la maglia biancoverde della Libertas San Bartolomeo. Cresce sotto gli occhi di Don Sandro, Don Onorio e Don Giorgio ma in tanti si accorgono del talento puro di quel ragazzino dal dribbling micidiale, un Garrincha in riva al lago. Dopo aver strabiliato sui campetti del comasco arriva la proposta dell’Inter.
Gigi ha 14 anni ma mamma Rosa non lo manda da solo a Milano per gli allenamenti e l’offerta svanisce di fronte all’irremovibilità materna. Ci pensa il Como a tesserarlo nel 1960 insieme a suo fratello Celestino. E’ gracile e col torace stretto ma i piedi sono ipnotici e non c’è terzino che lo tenga: è inafferrabile. Gioca per la Giovanile ma presto arriva la convocazione per la squadra maggiore: Meroni esordisce in serie B e dopo due anni convince i dirigenti del Genoa a portarlo sotto la Lanterna. Alla notizia dell’acquisto, i tifosi del Grifone furono tutt’altro che soddisfatti: aspettavano l’arrivo di Pedro “Piedone” Manfredini, goleador della Roma famoso in campo e nelle cronache mondane. Dopo due anni, alla notizia della cessione di “U Meruni” al Torino, la tifoseria rossoblù scatenò un’insurrezione tra i carrugi contro la società che osava vendere il loro idolo.

Gli anni al Torino non fecero che consacrare il valore di Gigi Meroni che, nonostante i pregiudizi sul suo carattere ribelle e le sue iniziative naif e provocatorie (un giorno si presentò al campo di allenamento con una gallina al guinzaglio), guadagnò la chiamata in Nazionale, condividendo suo malgrado la funesta spedizione ai Mondiali inglesi e la vergogna coreana. In maglia granata fece 103 presenze e 22 gol, lasciando in tutti il piacere del dribbling e del gioco come gesto di libertà vestita in maglietta e calzoncini. Se ne innamorò anche l’Avvocato Gianni Agnelli che fece di tutto per portarlo alla Juventus, scontrandosi però con la rivolta della tifoseria torinista.

In sua morte Gianni Brera scrisse “Meroni era il simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”, mentre Candido Cannavò aggiunse che Gigi “scrostava la muffa dalle abitudini, smascherava le ipocrisie. Un tenero rivoluzionario che dava il meglio di sé nel lavoro e poi rivendicava libertà totale”. Un tenero rivoluzionario uscito di scena sette mesi prima del maggio ’68, di cui fu per certi versi precursore sul rettangolo verde. Nel suo bellissimo “La Farfalla granata”, Nando Dalla Chiesa traccia di Meroni questo ritratto: “è stato nel mondo del calcio il maggiore interprete della domanda di libertà che ha investito l’universo giovanile degli anni ‘60”. Fino a quel maledetto 15 ottobre 1967.
Ultima annotazione: nel derby del 22 ottobre giocato in un clima indescrivibile il Toro travolse la Juventus per 4-0: Nestor Combin segnò tre gol, in nome di Gigi, che glieli aveva profetizzati.

Se Wystan H. Auden fosse stato un tifoso del Torino non avrebbe potuto che dedicare i versi del suo Funerale blues (Stop all the clocks) a Gigi Meroni:

Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotate l’oceano e sradicate il bosco;
perché niente adesso può più servire a qualcosa”.

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