di Silio Rossi – Chissà quanti lo hanno amato, ma anche mandato a quel paese. Perché Vincenzo, come si dice a Roma, era bravissimo a “caparsi” elogi e disapprovazioni nella stessa partita, a prendersi calci nel didietro da Giorgio Chinaglia con il quale però sapeva fare immediatamente la pace con un passaggio smarcante, per un gol sicuro.
I grandi di quella “Lazio grande” lo guardavano con sufficienza, temendo che “facesse il genio” già da piccolo e che si montasse la testa, così non gli facevano passare gli errori e le birbonate fuori dal campo, ma erano pronti, però, all’abbraccio e al sorriso se la sua “veronica” in partita avesse prodotto effetti letali per gli avversari e se, soprattutto quel “passeggiare” sinuosamente tra i centrocampisti “nemici”, portava il nostro eroe a meritarsi gli applausi.
Ho ancora nella memoria la sera che tra la Lazio e l’Almas, società romana, fucina di buoni elementi, fu raggiunto l’accordo per il suo trasferimento in biancazzurro. Fabrizio Di Stefano, dirigente del settore giovanile biancazzurro e Aldo Liberatore grande scopritore di talenti nei migliori gruppi di Roma, erano seduti allo stesso tavolo per una cena sociale, a cui erano stati invitati anche dei giornalisti. Io ero di fronte ai due, ascoltavo incuriosito lo sviluppo della trattativa. Per la verità c’erano già stati dei contatti, buoni e cordiali gli approcci, ma quella fu la serata decisiva perché Vincenzo diventasse un calciatore della Lazio.
D’Amico era poco più che un ragazzo, ma era bravo. In campo “disegnava” i suoi ghirigori che facevano impazzire i tifosi. Insomma prometteva una carriera da campione, aveva talento e i numeri giusti e pensate che prima di andare all’Almas, giocando a Latina, in parrocchia dai frati, aveva come compagno Bruno Conti, un altro genio in fieri del calcio, entrambi le stelle che facevano sorridere i fraticelli e ad ogni gol realizzato, costringerli a tirarsi su la parte bassa della tonaca.
Insomma, almeno quattro società romane gli facevano la corte. La spuntò la Lazio che prima destinò il ragazzo al settore giovanile e dopo pochi mesi lo mise a disposizione di Tommaso Maestrelli. Il tecnico capì immediatamente di avere a disposizione un campioncino. E quei tocchi di palla, i passaggi negli allenamenti a Tor di Quinto confermavano che D’Amico era destinato alla gloria. Anche se i più grandi e lo stesso Maestrelli temevano sempre che Vincenzo esagerasse nella vita e sul campo.
Della sua carriera si sa tutto, delle sue “follie” pure. Vincenzo era davvero “genio e sregolatezza”. Non sarebbe stato lui se non si fosse fatto assistere da un po’ di leggerezza e dalla giovanile incoscienza.
D’Amico è stato protagonista di una carriera brillante, ma non super come sperava lui e come si augurava la Lazio.
“Io sono fatto così“, confessò una volta, ammettendo soddisfatto di essersi divertito. In tutti i sensi.
Ha dribblato la gloria, ma ha dovuto cedere al male. Speriamo che dèi del calcio gli riservino un viaggio in “paradiso in carrozza e non a piedi“, come ha lasciato scritto Alessandro Manzoni parlando nei suoi Promessi Sposi di Don Rodrigo.
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