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L’editoriale di P. De Paola: “Napoli, questo scudetto è rivoluzionario”

Perché questo titolo è diverso dagli altri due

L'editoriale di Paolo De Paola

di Paolo De Paola – Napoli, 3 luglio 1990. Semifinale mondiale fra Italia e Argentina, stadio San Paolo. Maradona pronuncia questa frase: “Io voglio solo il rispetto dei napoletani, non il tifo perché io e la mia Nazionale sappiamo che i napoletani sono italiani, solo che gli italiani devono capire che anche il napoletano è italiano…”.

Poco più di un mese prima, il 29 aprile, il Napoli aveva conquistato il secondo scudetto battendo la Lazio 1-0. 
Il concetto espresso dal fenomeno argentino, che vincerà quella partita, è deflagrante e lancerà un macigno ancora vivo, dopo 33 anni, nel cuore dei tifosi del Napoli. Quella è stata la scintilla contro i cori offensivi e gli insulti che per decenni hanno determinato una ormai consolidata “diversità”. Un vero e proprio muro.

Lo scudetto rovesciato esposto al “Maradona”, lo striscione campioni “in” e non “di” Italia sono solo gli effetti finali. Sinceramente non credo che tutto ciò sia sano o giusto, ma esiste. È così, cronaca. Sulla quale una campagna consapevole di scrittori e opinionisti napoletani, ben amalgamata a esternazioni meno consapevoli e molto più ignoranti di trashissimi conduttori d’assalto, ha cementato a uno strisciante movimento revisionista della storia riguardante l’unità d’Italia.
Robetta da poco: Garibaldi era un impostore e si stava meglio con i Borbone.

Insomma, il primo scudetto (1987) è stato quello della “rivelazione”, il secondo (1990) ha aperto le menti all’”inquietudine”, il terzo si sta definitamente affermando come quello della “rivoluzione”. Hai voglia di parlare di vittimismo o di lamenti. A Napoli non ascolta più nessuno, c’è una condizione diversa, recalcitrante: uno stato nello stato.
La vittoria di una ribellione nemmeno tanto silente durata circa quarant’anni e che aspira, in un futuro prossimo, a diventare movimento politico. Già, aspira. I segnali ci sono tutti tranne l’adesione compatta del resto del meridione. L’Italia è fatta di campanili e campanilismi e sono troppo lontani i tempi di Franceschiello. Basta scendere di 56 chilometri più a sud, a Salerno, per capire quanto sia distante l’idea di unità meridionale nel nome del calcio e sotto l’egida napoletana. Per carità, nemmeno a parlarne. Ma lo stesso discorso vale per Avellino o per Benevento. Forse la sola e vicinissima Caserta, con la sua Reggia, potrebbe rimanerne affascinata.

No, questo ribollir di anime e di pulsioni resterà nel tino napoletano e vivrà tutta la sua scalpitante passione in quei confini. In fondo la divisione Nord-Sud fa comodo per vendere qualche libro, ma non ha riscontri reali. Se a Bergamo si insulta un giocatore della Juve urlandogli “zingaro” si capisce quanto sia pretestuosa l’arena calcistica pur di offendere l’avversario del momento. Solo la chirurgica ricerca dei colpevoli può evitare di massificare un fenomeno colpevolizzando curve o città intere. Però bisogna individuare e colpire senza tentennamenti o decisioni estemporanee alla Gravina perché, nel frattempo, ogni coro e ogni striscione molesto aumenterà le pagine dei libri da vendere e fomenterà i famosi, trashissimi, conduttori.

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