di Paolo De Paola – Il calcio è memoria collettiva. È condivisione di sofferenze e di bellezze. Ogni tifoso ha nel suo cuore la formazione che gli è più cara. I napoletani la associano anche ad altro e l’elenco potrebbe essere infinito, ma i Napoli più belli della storia sono cinque. Classifica per allenatore: Spalletti, Sarri, Bianchi, Vinicio, Mazzarri.
Vi spiego perché.
Circa cinquant’anni fa un altro Napoli fece sognare i tifosi arrivando secondo dietro la Juve nel campionato 1974-75. Era la Vecchia Signora di “entra Altafini e segna”. Già, proprio quel José Altafini soprannominato “core ‘ngrato” dai napoletani perché nella sfida decisiva segnò il gol vittoria per il bianconeri. Napoli non gliel’ha mai perdonata. Squadra di un azzurro bellissimo quella di Luis Vinicio che amava la zona e il calcio totale dell’Olanda. Il brasiliano di Belo Horizonte scelse Burgnich per difendere alto, Juliano per costruire e Clerici per far male (14 gol). Arrivò a un soffio dal delirio, solo due punti sotto i bianconeri, ma Gianni Brera lo bocciò perché, italianista, non sopportava tanto spazio fra la linea difensiva e la porta.
Anche i luminari sbagliano.
Quel calcio rappresentava il futuro e fu reso planetario dal Milan di Sacchi un decennio dopo. In quella seconda metà degli anni ottanta quando ti riempivi gli occhi di bellezza. C’era il duello Maradona-Milan: il dio del calcio contro la squadra che giocava da dio. Il Napoli di Diego non fu subito impero. Il fenomeno argentino arrivò il 5 luglio del 1984, fece esplodere il San Paolo col primo scudetto il 10 maggio 1987. Tre anni per convincere Ferlaino a fargli una squadra attorno. Arrivarono Giordano, De Napoli, Carnevale. E dopo il primo scudetto, Careca. Si formò la Magica Maradona-Giordano-Careca.
Il Napoli della stagione 1987-88 è stato letteralmente meraviglioso. Molto più spettacolare di quello scudettato tutto pareggi e vittorie col minimo scarto. C’era la scorza di Bianchi, tanta sostanza e la grande luce di Maradona, ma non fu un Napoli bello. Diego valeva da solo il prezzo del biglietto, veniva da noi giornalisti a bordo campo lanciando il pallone ad altezze incredibili e mentre ci stringeva la mano lo adagiava sul prato con un tocco di infinita delicatezza. Mai visto uno così innamorato del pallone. La squadra era solida e senza quei giocatori non ci sarebbe stato mai il ciclo vincente con scudetti, coppe Italia, coppa Uefa. Nessuno potrà mai dimenticare. Luis Vinicio aveva lasciato un’impronta indelebile di stupore, Ottavio Bianchi costruì il monumento col suo stile bresciano-bergamasco. Pochi fronzoli, pochi sorrisi, tanti fatti. L’unico modo per vincere a Napoli.
Passato il periodo d’oro si aprì l’abisso fino alla risalita con De Laurentiis.
Il primo vero bagliore è legato a Walter Mazzarri. Raramente un allenatore subentrato a un altro (Donadoni) ha cambiato tanto rapidamente gioco. È la Partenope dei tre tenori, Hamsik-Cavani-Lavezzi, un diamante grezzo. Va in Champions, vince la coppa Italia (battendo la Juve) e accarezza l’idea scudetto. È il Napoli delle plusvalenze d’oro che però separeranno le strade fra tecnico e presidente.
Quante lunghissime telefonate su questo argomento. A De Laurentiis piace stare al sole e Mazzarri gli faceva ombra. Impossibile non dividersi ma l’amaro tutto nella bocca del tecnico. Stesso discorso con Sarri, l’ennesimo toscano venuto a Napoli per portare una rivoluzione. L’allenatore vissuto a Bagnoli ci riesce. I triangoli di gioco si sviluppano per magia. La squadra gioca a memoria. E in attacco tagli, profondità, inserimenti. Due volte secondo, una terzo. Un Napoli di radiosa bellezza che fa sognare i tifosi e che nel 2018 a quota 91 raggiunge il suo record di punti, ma butta via lo scudetto perdendo malamente contro la Fiorentina. I limiti di Sarri: sempre pronto a fornire alibi davanti alle difficoltà. Una volta il potere del palazzo, poi il mercato che non va ma guai a dirlo apertamente, infine date e orari delle partite. Ce n’è sempre una che, accumulandosi, fa sfiorire il meraviglioso rapporto con il Comandante.
Fu lui il più spettacolare allenatore del Napoli?
No, quello scettro gli è stato tolto dall’uomo di Certaldo: Luciano Spalletti. L’allenatore manager che spesso non piace ai dirigenti, ma è adorato dai giocatori perché nel suo spogliatoio non esistono primedonne. In un ristorante di Milano sul viale per la stazione, prima di approdare a Napoli, mi racconta di Icardi e di Totti. Ha ragione lui, su tutto. Nessun allenatore ha la forza di attaccare il migliore rischiando di trovarsi la squadra contro per imporre regole valide per tutti. Lui ci riesce e questo non ha prezzo per formare una squadra.
Spalletti entra nella testa dei giocatori come pochi. Sa farsi ascoltare e va incontro ai problemi senza deviarli su altri. Negli ultimi anni ha smussato anche quel tuffarsi nella polemica al solo albeggiare di una parola imprecisa.
Il suo Napoli è splendido. Il più bello di tutti perché sai che prima o poi farà gol. Nessun altro ha mai dato una sensazione così forte e decisa. E contano poche le battute d’arresto contro Inter e Cremonese in competizioni diverse. A tutto c’è una spiegazione. Carichi di lavoro e carichi di responsabilità. Il suo Napoli lanciatissimo resta il più bello della storia.
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